venerdì 28 agosto 2009

"Sul Festival dei fiori evito di esprimermi"

Ha iniziato la carriera nel 1959 con Nuccio Ambrosino, fondando una compagnia goliardica, e debuttando al Teatro Delle Erbe della Cassa di Risparmio. Dopo quasi 50 anni di esperienza cosa bolle di nuovo in pentola?
In questi mesi sto girando un documentario per le strade e i locali di Milano, da Brera ai Navigli, e sul lago Maggiore dove sono cresciuto e risiedo. Sarà un video ispirato alla mia biografia; uscirà abbinato a un DVD con la sintesi delle mie attuali performance live. Il tutto dovrà essere pronto entro la metà del 2009. Ho poi in mente un nuovo spettacolo teatrale tratto dal mio libro “Scherzi della memoria”. Infine dovrei riprendere le mie “Lezioni concerto”, seminari sulla canzone popolare, sulla poesia lombarda e in dialetto locale, lingua che gli anziani stanno dimenticando e che i giovani vorrebbero conoscere.
In un libro di fine anni ‘70 dichiarava: “Ho quarant’anni, sono ateo da 25, non digerisco i digestivi, mi piace la testina di vitello e il barbera di 16 gradi, sono anti-clericale viscerale, non riesco a smettere di fumare”. Cosa c’è di vero in queste affermazioni? Oggi sono ancora attuali?
Sono tutte vere e attuali tranne quella sul fumo: ho infatti smesso con le “bionde” da tempo.
Quando ha iniziato a tradurre le canzoni di Georges Brassens? E qual è la molla che l’ha spinta a confrontarsi con il grande chansonnier francese?
Di Brassens ho sempre amato la sua eccezionale capacità di giocare con le parole, il gusto della satira e dell’ironia, il suo humor particolare, la sua cultura, la grande poesia. Ho ascoltato per la prima volta Brassens sul finire degli anni ‘50, grazie ai primi dischi arrivati in Italia. Poi Nuccio Ambrosino, con Gianpiero Borella, ebbe l’idea di tradurre un paio di testi in milanese, cambiando però la musica. Io non ero d’accordo e ho approfondito da solo l’ipotesi di un lavoro corretto di trasposizione in milanese del repertorio di questo grande autore. Ho continuato durante il servizio militare, ampliando il repertorio, con particolare riferimento a storie di poveracci, donne di vita, emarginati…
Compresa la bellissima “Chanson pour l’auvergnat?”
Esattamente.
Quante volte ha incontrato Brassens? Che tipo era?
L’ho incontrato una sola volta a Parigi nel 1973, in occasione di un suo concerto al Teatro Bobino. Prima di questo incontro gli avevo scritto 3 volte per mandargli i miei dischi con le sue canzoni tradotte. Lui non sapeva l’italiano (benché la madre fosse napoletana), tantomeno il milanese, ma verificò la validità del mio lavoro e mi scrisse una lettera di congratulazioni. L’incontro di Parigi è stato emozionante, come si può immaginare. Di lui mi hanno colpito la serenità, l’umanità, la dolcezza, la profondità e l’intelligenza dei suoi occhi.
In Italia oltre a lei ha lavorato ai testi di Brassens anche Fabrizio De André: avete mai affrontato insieme l’argomento?
Sì, una sera a Genova e nella chiacchierata scoprimmo che la canzone “Il gorilla” l’avevo tradotta io quattro mesi prima. A parte questo, Fabrizio ha studiato a fondo la poetica di Brassens e ad essa si è ispirato per molte sue canzoni.
I Gufi nascono nel 1964 e si sciolgono 5 anni dopo. Si sente ancora con Patruno e Brivio?
Certamente. Ho girato con loro due scene per il documentario che sto preparando.
Nel 1966 le prime apparizioni TV a “Studio Uno” e ad “Aria Condizionata” . Poi nel 1973 “Il calzolaio di Vigevano”.
Cosa ne pensa della TV di oggi? Ce li vedrebbe I Gufi in diretta a Zelig?
A parte il fatto che Magni non c’è più, non avrebbe senso pensare di proporre oggi in TV un quartetto di cabarettisti in voga 40 anni fa, risulterebbe anacronistico, lo stile televisivo è cambiato, la comicità non è più quella di allora. Avrebbe senso solo se I Gufi avessero proseguito nella loro avventura insieme elaborando il loro stile in base alle nuove esigenze.
Nel 1981 I Gufi si riuniscono per partecipare a San Remo con la canzone “Pazzesco”. Cosa si ricorda di quella esperienza? Qual è la sua opinione sul Festival dei Fiori?
Sul Festival dei Fiori evito di esprimermi. Per ciò che riguarda la nostra esperienza a San Remo ci arrivammo dopo una serie di spettacoli ad Antenna 3. Il nostro stile, però, non era adatto alla kermesse sanremese e così le cose non andarono granché bene, anzi male.
Gruppi moderni come gli Skiantos o Elio e le storie tese si dicono debitori del cabaret dei Gufi. Che ne pensa?
Ognuno di noi ha varie figure di riferimento dalle quali poi matura la propria vena artistica.
La sua attività artistica ha avuto un ruolo determinante nel mantenere viva la cultura popolare milanese. Potrebbe citare un paio di canzoni che affondano le loro radici nella notte dei tempi?
Il primo esempio di scrittura in rima in lingua milanese pare risalga all’epoca del Barbarossa, la famosa “Come diruto Mediolano”, ma di canzoni arrivate fino a noi si può parlare solo a partire dalle antiche ballate narrative medievali e rinascimentali come “Pellegrin che vien da Roma” e “A gh’era il fiol d’un conte” .
El magnano, el molètta, el polliroeu sono alcuni dei mestieri citati nel suo repertorio...
El magnano aggiustava le pentole, el molètta affilava i coltelli, el pollireu vendeva i polli e le uova. Poi c’erano l’ombrellée, el cadreghée…
Fra le canzoni della mala “La povera Rosetta” è forse la più famosa: si parla di un fatto di cronaca nera avvenuto dalle parti di piazza Vetra nel 1913…
Questa storia ha avuto diverse versioni: protagonista una ragazza molto bella che la sera lavorava in un caffé chantant ai Giardini pubblici e di notte raggiungeva piazza Vetra a fare la vita. Venne uccisa dall’amante geloso che era un agente di polizia, pare… questa è la versione più nota.
Altra gemma del suo repertorio è “Porta Romana”, melodia che ricorda certi stornelli romani…
È una canzone “carceraria” e pertanto risente di influenze di altre regioni; poi è entrata nel repertorio popolare con strofe goliardiche e d’osteria.
Com’era Corso Buenos Aires – dove lei è nato – negli anni ‘50?
C’erano 5 o 6 linee di tram che mi portavano dappertutto. Non esisteva la metropolitana. Noi ragazzi ci trovavamo al Motta di piazza Lima e passeggiando arrivavamo a bere l’aperitivo in San Babila.
Come mai se ne è andato da Milano? Come si trova sulle rive del lago Maggiore?
Sai, a una certa età non vivi le notti milanesi… Poi l’aria inquinata, il traffico. Vivo sul Lago da dieci anni, sto benissimo, coltivo l’orto e ho una barchetta per andare a pescare. A Milano comunque torno sovente per motivi di lavoro o per vedere la mia nipotina.
Il lago come fonte di ispirazione... Cosa ne pensa dei racconti di Andrea Vitali (da alcuni considerato il nuovo Piero Chiara) e delle canzoni di Davide Van de sfroos?Vitali come Chiara sa riportare personaggi e atmosfere che un amante del lago non può non apprezzare. Davide ha avuto il grande merito di rendere attuale e addirittura internazionale il dialetto lariano con testi molto belli oltre che originali.
Si parla tanto di morti bianche e lei nel 1964 ha composto i seguenti versi: “Si può morire facendo il presidente, si può morire scavando una miniera, si può morire d’infarto all’osteria, o per vendetta di chi non ha niente. Si può morire uccisi da un regime, si può morire schiacciati sotto il fango, si può morire attraversando il Congo, o lavorando in alto sul cantiere”. Sono ancora attualissimi…
Ho anticipato i tempi con una canzone che, in realtà, era un brano di speranza. Purtroppo le cose da allora non sono cambiate, anzi in certi casi sono addirittura peggiorate. Il dramma delle morti bianche è solo uno dei tanti problemi dei nostri giorni.
Dario Fo, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber. Chi ha frequentato di più?
Ci siamo incontrati in qualche occasione, ma non abbiamo mai collaborato.
Però ha riproposto dal vivo dei pezzi di Jannacci come “L’era tardi”...
Ma anche “Andava a Rogoredo”, “Prendeva il treno” e “Per un basin” sono entrati nelle mie antologie discografiche sugli autori milanesi.
Milanoweb sta cercando di intervistare i milanesi che hanno contribuito di più alla salvaguardia della cultura popolare. Ha qualche nome da proporci?
Umberto Faini a Milano e Francesco Magni in Brianza.
“Salve o Regina, madre di misericordia, vita e dolcezza e speranza nostra”. È in grado di proseguire?
No, sono ateo e non mi interessa.
Però anche questa è cultura popolare…
La mia cultura è contro tutte le religioni che hanno ammazzato il progresso e qualche fautore della libertà di pensiero. A parte le stragi e le guerre sante.

(Intervista condotta in via Pacini, il 27 ottobre 08)

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