mercoledì 11 luglio 2012

Anch'io a volte mi sento una scimmia parlante


Buongiorno Gianluca.
Buongiorno a te.
Dunque, partiamo dall'imminente spettacolo di Monza…
Si terrà giovedì al Brianteo e… sarà una specie di sorpresa.
Una sorpresa nella sorpresa.
Proprio così. Sarà uno spettacolo diviso in due parti. Una prima parte elettrica, e una seconda acustica, con il coinvolgimento di ballerini e altri artisti.
Una soluzione atipica nell'ambito degli show italiani.
Di sicuro nell'ambito rock e pop. Qualcosa del genere, però, s'è visto nella musica classica.
E' anche questa una formula di sperimentazione.
E' anche questa l'occasione per poter dire qualcosa di concreto.  
Cosa intendi?
Nel nostro Paese percepisco troppo spesso la volontà di creare non tanto per comunicare, quanto per mantenere il proprio status sociale e artistico.
Nomi non se ne fanno, ma perché si arriverebbe a tanto?
Parlerei di una sorta di disonestà artistica, dove non esiste il collante fra arte e avanspettacolo. Nient'altro che messinscene per affrontare cose già dette.  
In Italia c'è comunque qualche figura che apprezzi?
Ce ne sono parecchie.
Qui, però, i nomi si possono fare senza problemi.
Beh, a parte Vasco - che ci mette sempre la faccia in quello che fa - sono affascinato da gruppi come i Baustelle e i Subsonica.
Fra le nuovissime proposte?
Mi piacciono Carone e Noemi.
E fra gli stranieri, ami sempre i Radiohead?
Sempre, anche se gli ultimi lavori non mi hanno entusiasmato.
Torniamo al concerto di giovedì…
Come ti dicevo è un evento in grande, anche per festeggiare i miei 40 anni.
Un bel traguardo.
Non lo definirei così. I traguardi hanno senso solo se aprono la strada a nuove mete.
Durerà?
Penso più di tre ore.
Dopo questa data partirà il tour europeo e internazionale.
Partiamo a ottobre con l'Europa, facendo tappa a Parigi, Londra, Barcellona… a gennaio, invece, decolliamo per il SudAmerica.
Come rispondono gli stranieri alla tua proposta musicale?
In modo unico e incredibile. Credo che la mia avventura musicale riguardi macrocosmi che potremmo definire vergini, mai interessati da artisti italiani. Forse solo Zucchero…
Il tuo album di maggiore successo all'estero?
Indubbiamente Destinazione Paradiso. La mia storia fra le dita ha travalicato i confini di ogni paese. Spero di non offendere nessuno se dico che siamo quasi ai livelli di "Volare".
La fabbrica di plastica continua, però, a essere il tuo album più "originale".
Non sono d'accordo. Se ascolti attentamente la mia discografia puoi vedere che "l'anticonformismo" della Fabbrica è presente anche in altri lavori. Semmai è il primo disco che mi ha portato a voler dire le cose in un certo modo, senza dare alcun peso alle richieste del mercato.
E dopo il tour?
Torno in studio. Non mi fermo mai… per fortuna.
C'è già pronto del materiale?
Sì, certo. Continuerò per concludere la trilogia iniziata con Romantico Rock Show e Natura Umana.
A proposito dell'ultimo disco Natura Umana… a chi ti riferisci parlando delle "Scimmie parlanti"?
E' un testo provocatorio e torna a riferirsi alla sensazione di smarrimento che mi contraddice quando vengo a tu per tu con determinate realtà… non solo musicali.
In sostanza si parla, si canta, si fa "arte" solo per tener fede a impegni - chiamiamoli - professionali.
Esattamente. Ma è un concetto da prendere con le pinze. Anch'io a volte mi sento una scimmia parlante.
E pure i discografici.
Senz'altro. Quelli che cercano di farti fare ciò per cui non sei tarato, solo per soddisfare i gusti del mercato. Anche a Rino Gaetano è accaduta la stessa cosa. E' il perenne scontro fra l'esigenza artistica più pura e la necessità economica della casa discografica di far tornare i conti. E invece andrebbe solo e soltanto valorizzata la proposta artistica.
Perché ti definiscono il joker della musica italiana?
Una volta avevo prodotto un lavoro a New York in cui apparivo con un ghigno, quello tipico del joker.
Un ghigno?
In realtà in molti affermano che io mi esprima con un ghigno "al naturale", che spesso si sostituisce al sorriso.
Vizi?
Nulla. Se non dire sempre quello che penso, anche a costo di tirarmi la zappa sui piedi.
Più che un vizio mi sembra una virtù.
Non è sempre così. E in ogni caso ora che sono padre è indispensabile un certo rigore.
Padre di tre figli.
L'altro ieri è nato il mio quarto, Jona.
Siamo di Milanoweb e dunque ti chiediamo che rapporto hai con la città.
In realtà non ho rapporti "geografici" con nessun luogo. Il concetto di origine mi indispone. Mi piace pensare di essere un cittadino del mondo.
Hai passato tanti anni in Brianza?
Sono nato e ho vissuto la mia infanzia a Milano, a Precotto. Poi mi sono trasferito a Correzzana, in Brianza. Ovunque andassi ho dovuto tirare fuori i denti per stare a galla.
Ora vivi ancora in Brianza?
Non più. Vivo nell'Oltrepò pavese, dove vivevano anche i miei nonni.
Allora le origini contano.
Non contano le bandiere. Le bandiere non hanno senso di esistere.
Anche la bandiera dell'Inter?
L'Inter è l'Inter.
Due nomi che vorresti ricordare al termine di questa intervista.
Mio nonno materno, Cleto Antonioli, che è venuto a mancare poco prima del mio successo. Aveva letto da pochi giorni per la prima volta il mio nome sul giornale. E' stato lui il primo a credere nel mio talento.
Che faceva il nonno?
Era anche lui un musicista. Suonava la fisarmonica. Ha suonato anche con Raul Casadei.
Altri nomi?
Se posso ti citerei Hendrix e Lennon.
Hendrix?
Una notte mi è apparso in sogno dicendomi che sapendo suonare la chitarra era giusto che la suonassi… davvero. Mi piace considerarlo un monito al mio destino.
E Lennon?
Beh, Lennon… Lennon è tutto. Da Lennon ho preso l'atteggiamento nei confronti della musica e, forse, della vita stessa.
Comunichi anche tu su Facebook.
Non mi dispiace.
L'ultimo messaggio?
Questo: volevo ringraziare tutti di cuore per gli auguri. Grazie. Ci vediamo a Monza. Ricambierò con un grande spettacolo. Rock on!

lunedì 9 luglio 2012

La mia tre giorni in compagnia di Vinicio


 REBETIKO GYMNASTAS

Introduzione

Un viaggio in Grecia nel 1998 porta Vinicio Capossela a incontrare per la prima volta un genere musicale che affonda le sue radici nella storia europea degli anni Venti, in concomitanza con la fine della Prima guerra mondiale: il rebetiko. Da qui parte un'avventura artistica e musicale che ha avuto il suo felice epilogo nel 2007, con la registrazione di un disco ad Atene, in compagnia di alcuni fra i più grandi musicisti rebetici dell'era moderna. Per cinque anni, però, è rimasto in cantiere, dando modo a Capossela di volgere le sue attenzioni al capolavoro Marinai, Profeti e Balene, un disco incentrato sul mare, che anticipa concettualmente quest’ultimo, riguardante il ritorno, la risacca, la riconquista della terraferma. Oggi, dunque, dopo la fase di missaggio e masterizzazione la sua pubblicazione va curiosamente a coincidere con la più grande crisi patita dal popolo greco da decenni, riportando in auge sentimenti che parevano dimenticati. Sono gli stessi che contraddistinsero i fervori rebetici di quasi un secolo fa, quando la Grecia dopo il '22 visse un periodo ancora più difficile di quello odierno. Il rebetiko nasce da una necessita' di verita' di identita' e di radici che e' quantomai attuale.Non è un caso, quindi, che, fino a ieri, i locali dove proponevano questo tipo di musica, si contavano sulla punta delle dita, mentre oggi sono sempre più frequenti.
Rebetiko Gymnastas (che parafrasa un brano del poeta russo Vladimir Vysotsky) è il titolo dell'ultimo lavoro di Capossela e il riferimento alla ginnastica, madrina delle discipline olimpioniche, non è incidentale: le prime forme di questo sport risalgono, infatti, all'epopea della Magna Grecia, così come diviene di fondamentale importanza per un rebetis (simbolo del rebetiko) compiere una sorta di ginnastica esistenziale per poter affrontare a testa alta dolore e sofferenza, in nome delle piccole gioie quotidiane e non per ostentare con piglio narcisista fisici da capogiro; e la ginnastica è anche quella espressa da Capossela e dai suoi musicisti per poter offrire nuovi abiti alle quattordici canzoni contenute nel disco, quattro inediti, nove brani presenti nella vasta discografia del cantautore e una ghost track. Il rebetiko è, infine, il pretesto per poter parlare di altre musiche legate alle vicissitudini dell'esistenza (e ai retroscena storici dove il senso di umanità trova il suo più ampio respiro), che Capossela ama definire dell'Assenza (ma anche dell'appartenenza). L'artista italiano, durante la sua ventennale carriera ne ha già affrontate diverse. Ora, dunque, è arrivato il momento di parlare di Grecia non soltanto per le nuvole addensate sulla situazione economica e sociale ,ma per una della sue più identitarie espressioni musicale: il rebetiko.

1. Canzoni rempetike

"Andava di fretta il ragazzo, procedeva veloce, come per farsi inghiottire dagli scalini, e allora pronti, in un balzo ci buttammo dietro al passo per parlargli… domandargli, così al trotto, e quello concitato com'era nella corsa balbettò soltanto 'là… là' e indicava più in basso 'là… è la musica dei negri elleni. Rebetiko si chiama!". È uno stralcio recuperato da Il girone dei rebetici, capitolo incluso in Non si muore tutte le mattine, romanzo scritto da Vinicio Capossela nel 2004. Narra l'incontro dell'autore con un genere musicale pressoché sconosciuto in Italia, ma assai vivo nell'immaginario collettivo greco: il rebetiko. Il termine fa il verso alla parola turca rempèt, che significa indisciplinato; al serbo rempèt (rivoltoso); al veneziano rebelo (ribelle); o addirittura allo spagnolo rebelde (rivoluzionario); tenuto conto del fatto che, specialmente a Salonicco, sussiste una forte componente ebreo-sefardita che parla spagnolo e che i veneziani spadroneggiano in molte isole dell’arcipelago ellenico. Ne parla per primo lo scrittore popolare Ilias Petropoulos, che nella primavera del 1968 pubblica il libro Canzoni rempetike. Nella sua introduzione parla di "piccole e semplici canzoni cantate da gente alla buona". Divide il fenomeno in quattro periodi: il primo, dalla fine del diciannovesimo secolo al 1922; il secondo – detto "periodo del dominio di Smirne" - dal 1922 al 1932; il terzo – il periodo classico – dal 1932 al 1942; il quarto – il periodo della popolarità – dal 1942 al 1952. Ne discute con passione e dovizia di particolari anche la giornalista Gail Holst, autrice del testo The Road to Rebetika, descrivendo il genere musicale come "un mondo artistico profondamente originale, figlio della combinazione tra forme musicali tradizionali del Mediterraneo orientale e le parole delle canzoni, trattanti la malavita urbana e gli elementi meno rispettabili della società".

2. Le musiche dell'assenza

Vinicio Capossela incontra il rebetiko nel 1998 (anche se già da un paio d'anni con il fido Luca Bernini, giornalista e produttore musicale, è solito chiamare un certo tipo di musica rebetiko rokkarolla), dopo aver affrontato molti generi pentagrammati idealisticamente analoghi a esso, come il tango e la morna. E la musica Rom. Agli tzigani arriva dopo l'esperienza maturata con la Kocani Orchestra, fra le più importanti realtà musicali balcaniche. E film come Il tempo dei gitani, girato nel 1988 da Emir Kusturica. C'è anche la sua terra di origine a parafrasare il microcosmo zigano, il piccolo centro di Calitri, in provincia di Avellino, dove ha trascorso l'infanzia. "Liveinvolvo (disco del 1998) ne è la testimonianza", dice Capossela, sottolineando l'utilizzo di certi macchinoni - le Volvo, appunto - così frequenti fra gli tzigani, ma non meno fra i vecchi abitanti della terra d'infanzia del cantante. Al tango giunge, invece, attraverso figure leggendarie come Roberto Goyneche, soprannominato "el polaco" per la sua magrezza e per i suoi capelli rossi, riconducibili alla fisionomia dei giovani polacchi in cerca di una terra, dove poter condurre serenamente la propria esistenza. Goyeneche rivoluziona il tango, cantando in controtempo, imitando rigori canori assimilabili al jazz di Louis Armstrong e al fado portoghese di Argentina Santos; il regista Fernando Ezequiel "Pino" Solanas lo sceglie per la colonna sonora di uno dei suoi film più celebri, Sur, girato nel 1988, e vincitore del premio per la miglior regia al 41esimo Festival di Cannes, che apre il cuore e la mente del musicista italiano. Alla morna, altresì titolo di una delle sue canzoni più note, arriva immedesimandosi nel tema della "sodade", termine indicante malinconia, nostalgia, rimpianto, desiderio: la morna - etimologicamente riconducibile alle chanson des mornes, antiche canzoni caraibiche - è la musica tipica delle isole di Capo Verde, intrisa di fado portoghese, modinha e lundum brasiliani. È un universo di musiche estremamente variegato, ben lontano dai suoni e dalle correnti tipiche del modernismo. Vinicio Capossela le definisce Musiche dell'Assenza, dove per assenza s'intende un sentimento struggente, figlio di una "mancanza" incolmabile, che, però, viene vissuta di petto, senza lasciarsi travolgere dai patimenti e dalla autocommiserazione. Chi si fa portavoce di una musica dell'assenza non ha paura di nulla, tantomeno della morte, che guarda in faccia con grande stoicismo, arrivando in molti casi anche a sfidarla a viso aperto, bevendo, per esempio, come spugne o drogandosi senza ritegno. I protagonisti di queste composizioni sono, dunque, genti che non si preoccupano del domani - ammettendo senza problemi che il domani possa anche non esserci - non temono niente e nessuno, pur vivendo nella disillusione più totale: "Sono musiche che non hanno paura del dolore", spiega Capossela, "che affrontano il dolore con forza e coraggio, senza chiedere aiuto a nessuno, senza dover credere per forza in qualcosa o qualcuno che sta al di là dei nostri sensi, offrendoci, in sostanza, una chance in più alla provvisorietà del vivere quotidiano. Sono musiche che cantano la vita come se fosse sempre l'ultimo giorno; una lama di gioia al fondo della più avvincente tristezza". Nelle musiche dell'assenza, peraltro, il cantante, il musicista, il virtuoso, contrariamente a quanto avviene nell'universo mainstream, passa in secondo piano, lasciando che sia solo la musica a emergere, permettendo ai presenti di vivere un’emozione “casalinga”, familiare. “Un’emozione vicina alla propria quotidianità”, afferma Capossela, “come quella che può derivare da un’azione semplice e banale, tipo sedersi a tavola per consumare un tozzo di pane o bere un sorso di vino”.

3. Il primo incontro

Un puro e semplice caso di "serendipità" ha portato Capossela a sposare il fascino del rebetiko: "Stavo viaggiando diretto in Macedonia, dopo l'avventura con la Kocani Orchestra; e non saprei dire bene come e perché, sono finito a Salonicco". È l'antica Tessalonica, la seconda città della Grecia per numero di abitanti, una metropoli, dove da secoli convivono culture diverse, figlie della dominazione ottomana, d'influenze ebraiche, bizantine e paleocristiane. Qui, Capossela, entra per caso in una specie di taverna, assimilabile a un antico tekedes, caffè stile turco, frequentato dai mangas, personaggi tipici degli anni Venti in Grecia, caratterizzati da lunghi baffi e fusciacche nelle quali nascondono un coltello o la pistola. Rimane incantato dal suono prodotto da tre musicisti che siedono parcamente in un angolo del locale: "Fu da subito una musica dimessa, appoggiata, stanca e disillusa", si legge su Non si muore tutte le mattine. "Venne dal cuore dello strumento e dalla retsina (vino bianco o rosato da tavola greco), e come la retsina inebriava allo stesso modo. La eseguivano seri, in un rito. Si spandeva la musica nella sala, senza scuoterla. Saliva d'intensità. Scioglieva come anice e con quella aumentava il brusio, la rakia e la conquista a cui cedevamo. Avevano l'aria, gli interreati, di sapere già. Non davano nemmeno l'impressione d'essere rapiti da quella loro musica. Pareva che già vi appartenessero". Ecco, quindi, il secondo concetto che Capossela, insieme all'assenza ama esprimere parlando di rebetiko: quello dell'appartenenza. "L'appartenenza a una sorta di girone dei congiurati, uomini e donne rapiti dalle proprie vicissitudini, concrete, lontane da qualunque retorica: persone fiere di stare lì a fumare e mandare in cenere il proprio cuore".

4. Il mormorio del bouzouki

Nella taverna di Salonicco, due strumenti a corda pressoché inutilizzati in Europa, catturano l'attenzione di Capossela: il più grande è un bouzouki, il più piccolo un banglamas. Il primo è uno strumento tricorde, sei corde raggruppate due a due, la cui accordatura - Re-La-Re - offre l'opportunità di sviluppare accordi suonabili a corde vuote o in barré, in qualsiasi posizione; lo stesso accade con accordature simili, tipiche, però, delle località greche più isolate: Sol-La-Re o La-Mi-La. Se non ci si cimenta con gli accordi tradizionali, ma si vuol dar luogo a una melodia precisa o a un assolo, si possono utilizzare numerose scale, consolidatesi negli anni, dai nomi più disparati, in certi casi evocanti l'area geografica di origine: hitzaz, hitzascar, pipaiotiko, houzam, rast, armeno minori, sono quelle più comuni. Per strimpellare si utilizzano le unghie o più comodamente un plettro. Oggi il bouzouki tricorde è spesso sostituito dal quadricorde, che normalmente obbedisce all'accordatura Do-Fa-La-Re, per via del processo di occidentalizzazione della musica greca avviato (disdegnando i puristi, ma rallegrando i tour operator) da Manolis Chiotis, stella del panorama musicale ellenico, nato nel 1920 a Salonicco. Il baglamàs è la versione in miniatura del bouzouki, non più lungo di sessanta centimetri. "Per i mangas era l'ideale da portarsi in carcere, perché maneggevole e facile da nascondere", rivela Capossela. Nel locale ellenico il cantante italiano ascolta con attenzione le note emesse dal bouzouki e dal banglamas e osserva con curiosità e passione tutto ciò che lo circonda. Nota ogni spettatore partecipare in prima persona allo show, se non cantando, mormorando. E non è un caso, dunque, che la parola italiana "mormorio", derivi dal greco murmurous, che si rifà al termine "mourmourika", lemma con cui vengono designate le composizioni proto-rebetiko sviluppatesi nel 1834 in Grecia, in corrispondenza del dominio bavarese, imposto dalle grandi potenze mondiali per mantenere l'ordine alle porte del medio oriente. I musicisti, pertanto, non ottengono un posto di rilievo rispetto alla massa e non calcando un palco, si mettono, in pratica, sullo stesso piano dell'ascoltatore. "Sono stato molto colpito da quest'atteggiamento”, rivela Capossela, “dalla potenza di una musica che incute rispetto e dalla volontà, quindi, di farsi da parte per dare alle note la massima importanza”. Ma non va confusa con quella folcloristica. La differenza risiede nel fatto che la musica folk parla e si rivolge a microcosmi geografici specifici; mentre il rebetiko è rivolto a tutti, essendo innanzitutto una filosofia di vita, e trovando spazio per emergere in un contesto rigorosamente urbano, dove si intrecciano storie e traversie di ogni natura. Tuttavia il rebetiko risente anche della cultura folcloristica greca detta dimotika, derivante da antiche tradizioni rurali e incentrata soprattutto sull'uso del clarinetto; altre contaminazioni riguardano le canzoni popolari dell'est, dell'Arabia e della Turchia, giunte sul territorio ellenico attraverso i numerosi porti a cavallo fra Europa e Asia; il canto bizantino, gli inni della chiesa greca ortodossa e le serenate dell'eptanissa, musica proveniente dalle isole del Mar Ionio, facente capo al compositore ellenico Nikolaos Mantzaros.

5. Al cospetto di Vamvakaris

Tornato in Italia, Capossela approfondisce il mondo del rebetiko, indagando la storia del genere musicale e identificando i suoi principali epigoni. Scopre che molti rebetis - similmente a numerosi altri rappresentanti delle musiche dell'assenza - nemmeno depositavano le loro opere, e che gran parte di essi moriva di stenti o morte violenta; spesso giovanissimi. Chi non stramazzava al suolo per una bastonata o per i colpi di un'arma da fuoco, moriva per una dose eccessiva di eroina, e l'indomani veniva ritrovato esanime, abbracciato magari al suo strumento preferito. Altri finivano in prigione, si vantavano di essere finiti dietro le sbarre e non vedevano l'ora di uscire per farsi di nuovo catturare, abbracciando il concetto di ribellione come paradigma esistenziale. Capossela individua, quindi, alcune fra le più grandi leggende del rebetiko, come Markos Vamvakaris, soprannominato "il re del Pireo", proveniente da Syra (Siro) - isola greca delle Cicladi - dove nasce nel 1905. Dedicò tutta la sua esistenza alla musica, vivendo da dandy, accompagnandosi con altri artisti come il cantante Stratos Pagioumitzis e l'egregio suonatore di banglamas, Jiorgos Batis. Bussò per la prima volta all'uscio di uno studio di registrazione nel 1932, per incidere un paio di danze. Il successo gli arrise fra gli anni Trenta e Quaranta, con la registrazione di numerosi dischi. Morì nel 1972, sessantaseienne, e a conferma del suo grande amore per il rebetiko, venne seppellito col suo piccolo baglamas. "Un uomo solenne", lo descrive Capossela, "vero rappresentante del rebetiko in tutte le sue forme". Con le musiche e le canzoni rempetike scopre anche il policromo mondo delle danze che circonda il fenomeno, spesso espresso in tempi musicali e coreografie mai visti in occidente. Le danze più popolari sono lo zeibekiko, il chassapiko e il tsifeteli. La prima, la cosiddetta "danza delle danze", segue un ritmo in 9/8; si balla singolarmente, ottenendo figure sempre più complesse e spettacolari: in certi casi il danzatore arriva a compiere vere e proprie acrobazie; ne esiste una variante - detta karsilama - tipico ballo di coppia di origine ottomano. La seconda - nota anche col nome di butcher's dance (chasapis è appunto il macellaio) - segue battute in 2/4 o 4/4 ed è eseguita da due o tre ballerini che si tengono per la spalla, richiamando esplicitamente le movenze del sirtaki. Alcuni ballerini la affrontano muovendosi sui tacchi. L'ultima, detta ballo della fertilità, viene assimilata a una specie di danza del ventre, con protagoniste le donne.

6. Contratto per Karelias

La prima composizione caposseliana a risentire esplicitamente del rebetiko è Contratto per Karelias, un adattamento di un brano composto da Markos Vamvakaris, il re del Pireo. Finisce nel disco del 2000 intitolato Canzoni a manovella, il quinto della carriera dell'artista, composto da diciassette tracce e brani epici come Marcia del camposanto e Con una rosa. La Grecia e lo stile di vita dei rebetis sono fin troppo eloquenti. "Da Salonicco a Kalamata, da dieci giorni mi divora la ferrata; nella spezia della sera, dal Bosforo d'argento fino a Izmir bevo rakja, rakja vieni a consolarmi dalla pena e dal dolor (…); cala la luna e io non spero, l'illusione è lusso della gioventù". Capossela centra un brano di grande struggimento, riportando in vita fantasmi sepolti da quasi cento anni. È il preludio a un nuovo viaggio ad Atene affrontato dal cantautore a cavallo fra il 2000 e il 2001 per dare ulteriore forza a questa nuova passione; ed è un altro incontro felice, anche se ci vorranno vari anni e vari dischi (l'Indispensabile del 2003 e Ovunque proteggi del 2006) prima di poter tornare a parlare esplicitamente di rebetiko.

7. Appuntamento a Monastiraki

Inizio 2007. Una cantane greca incide due brani di Vinicio Capossela: Corre il soldato (dell'album Canzoni a manovella) e Non è l'amore che va via (del disco Camera a Sud). Si chiama Dimitra Galani. È nata ad Atene nel 1952 e ha iniziato la carriera giovanissima, nel 1968 (quando Vinicio Capossela ha appena tre anni), cantando due canzoni di Dimos Moutsis nell'album Smile. In seguito propone brani di autentiche leggende della musica ellenica come Mikis Theodorakis e Vasilis Tsitsanis e partecipa alle registrazioni di una settantina di dischi. Conosce, alfine, l'arte di Capossela, in qualche modo già da anni riconducibile all'universo musicale greco, e incide i due pezzi selezionati dai dischi del musicista italiano. In uno - Non è l'amore che va via - chiede direttamente all'autore tricolore di partecipare alle registrazioni. Capossela ne è lieto, vola ad Atene e sigilla il suo primo contatto ufficiale con la realtà discografica greca. Terminate le incisioni, però, memore delle esperienze avute fra il '98 e il 2000, anziché rincasare, chiede a Dimitra di accompagnarlo dove si suona il rebetiko. Finisce così in un locale, presso il quartiere Victoria, dove si sta esibendo Kaiti Ntali. "L'ho trovata straordinaria", ricorda Capossela. "Un incrocio fra la maestosità di Chavela Vargas (cantante messicana originaria della Costa Rica), il vibrato di Jimmy Scott (vocalist americano affetto da una malattia genetica che gli consente vocalismi estremi) e l'attitudine rock di Patti Pravo. La gente gettava garofani rossi ai suoi piedi, ma lei pareva altrove, con i suoi occhi chiusi e la sua eccezionale capacità di tenere il palco. Con lei c'era anche un meraviglioso suonatore di bouzouki, un monumento di pietra con due baffi da vero rebetis: Manolis Papos". Capossela s'impone di conoscerlo e lo trova nel cuore di Monastiraki, uno dei quartieri più caratteristici della vecchia Atene. Nasce così l'idea di lavorare insieme. Ad aprile organizza un mini tour ad Atene. Presenta Ovunque proteggi (il primo suo primo disco ad arrivare in cima alle classifiche italiane e a vendere 80mila copie in dieci mesi), nonché brani di altre raccolte ri-arrangiati in chiave rebetiko. Per una settimana è ospite fisso di una delle più prestigiose location ateniesi: l'Half Note. Con lui suonano i musicisti rebetici Manolis Papos, al bouzouki, e Vassilis Massalas, al banglamas. E la prima sera lo affianca la Galani."C'è già molta Grecia nel nostro live, anche se del nuovo disco non c'è ancora traccia", spiega Capossela. Ciò è anche dovuto all’approccio agli spettacoli dal vivo, contemplanti la mitologia ellenica, e in particolare la figura del minotauro, l'essere mostruoso metà uomo e metà toro, figlio del Toro di Creta e di Pasifae, regina di Creta. È, in effetti, il periodo in cui l'autore italiano è solito presentarsi dal vivo (al grido di rebetiko minotaurus) con la maschera sarda del Boes (tipica del carnevale di Ottana, un paesino in provincia di Nuoro), che rimanda alla figura leggendaria del minotauro. Ma è solo l'inizio, perché di lì a poco - tre mesi circa - iniziano le registrazioni per il primo disco greco di Capossela: Rebetiko Gymnastas.
8. Il mixer dei Pink Floyd
L'estate del 2007 è ricordata in Grecia come l'estate del fuoco. Nel Peloponneso si scatena un'infinita sequenza d'incendi che in breve tempo inceneriscono mezza nazione: si parla di circa 3mila incendi, con 64 vittime e temperature costanti superiori ai 40°C centigradi. Un vero inferno. È dunque in quest'apocalittica cornice che il disco di Vinicio Capossela vede la luce. "Il disco nasce sull'idea dei vari pezzi arrangiati durante le esibizioni live all'Half Note", rivela Capossela. "Le mie canzoni hanno preso una forma assolutamente diversa, grazie agli interventi di Papos e degli altri musicisti". È qui che comincia a essere fortemente accarezzato il termine gymnastica. Capossela rivela l'intenzione di voler far fare un po’ di ginnastica ai suoi brani, complicandoli, come sempre più complicata è spesso una sequenza di esercizi ginnici. È così che, per esempio, una canzone come Scivola vai via (del suo disco d'esordio, All'una e trentacinque circa), esercitandosi su un inusuale tempo di 9/8, viene cantata aggiungendo di volta in volta una battuta in più e dunque dando l'impressione di un pezzo che - letteralmente - scivola e va via. Il disco viene realizzato in un vecchio studio di Atene, il Sierra Studio, su nastro analogico. il mixer utilizzato si dice sia quello con cui i Pink Floyd hanno registrato uno dei loro più grandi capolavori, The Dark Side On The Moon. "C'è altresì l'idea di ricreare un po’ l'atmosfera evocata da dischi cult come quello d'esordio dei Buena Vista Social Club, capitanati da Ry Cooder", dice Capossela, "proprio per questa volontà di ridare lustro a un genere dimenticato, confrontandosi con le realtà locali, musicisti di straordinario talento, una Buena Vista Social Club del Mediterraneo". È un disco sostanzialmente registrato in diretta: "Da tre take si ricavano le registrazioni migliori, dopodiché si procede con pochissime sovra incisioni", sottolinea l'artista. Al mixer c'è Taketo Gohara, ingegnere del suono che ha accompagnato l'autore italiano anche nel suo ultimo lavoro dedicato al mare e intitolato Marinai, Profeti e Balene. Il suo nome è, peraltro, legato a varie altre realtà musicali del Belpaese come Marta Sui Tubi, Ministri e Mauro Pagani. Gli altri musicisti coinvolti nel progetto - oltre a Manolis Papos (bouzouki), Vassilis Massalas (banglamas) e Kaiti Ntali (voce) - sono Ntinos Hatziiordanou (fisarmonica e farfisa) e Socratis Ganiaris (batteria, congas, bongos, shakers, bendir, ntefi, una specie di tamburello). Ci sono poi vari ospiti: Ricardo Pereira suona la chitarra portoguesa in Morna; Marc Ribot presta la sua sei corde in Abandondato e Rebetiko; Mauro Pagani fa vibrare il suo violino in Con una rosa. E c'è soprattutto Vinicio Capossela che canta con la sua solita maestria, picchiettando sui tasti di un vetusto pianoforte a muro, l'ideale per conferire il suono desiderato alle canzoni in scaletta.
9. Dopo il Trattato di Sèvres
Con la fine della terribile estate greca, costata ingenti danni alle casse dello Stato e il tracollo di numerose aziende agricole, le registrazioni sono concluse, ma l'album rimane in stand-by: "C'erano altre cose su cui avevo deciso di concentrarmi, compreso il disco incentrato sul mare che sarebbe uscito nell'aprile 2011, che concettualmente precede il lavoro sul rebetiko", dice Capossela, "così abbiamo aspettato per farlo uscire". L'album viene ripreso in mano alla fine del 2011, all'indomani dell'ultimo tour; un periodo che, paradossalmente, si rivela assai più congeniale del 2007 per un semplice motivo: il rebetiko, in Grecia, sta tornando di attualità. Ciò risiede nel fatto che il genere musicale, come molte altre musiche dell'assenza, è tipico dei contesti sociali più sofferti, più aspri, dove l'economia vacilla e la gente fatica a vivere in modo dignitoso; retroscena storici come quello che ha dato i natali al rebetiko, ma anche analoghi a quelli che stiamo vivendo oggi, dopo il patatrac delle banche a livello internazionale. La nascita del rebetiko evoca, infatti, uno dei periodi più bui della storia greca. È quello successivo alla Prima guerra mondiale, quando parte dei territori dell'Anatolia e della Tracia, comprese le città di Adrianopoli e Smirne, finirono nelle mani dei greci. Il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) sancì nuovi confini fra i due stati, Grecia e Turchia, ribadendo in qualche modo gli equilibri geografici instauratesi più volte nel corso della storia, ma nel maggio del 1919, i turchi, innescano la guerra greco-turca, per riprendersi le terre che, secondo il loro discutibile punto di vista, gli spettano. Il confronto decisivo avviene con l'esercito greco che tenta di prendere Haymana, centro a pochi chilometri da Ankara. I turchi si difendono con caparbietà e alla fine riescono ad avere la meglio, ribaltando completamente le sorti del conflitto. Gli ottomani, nel corso della cosiddetta "Grande offensiva", surclassano definitivamente il nemico nella battaglia di Dumlupinar. I greci sono costretti a scappare e a rifugiarsi a Smirne, centro popolato da 250mila anime, perlopiù di origine ellenica, presto battezzato "regno del terrore", per le atrocità che si perpetrano. Ma anche qui giungono i turchi che, guidati da Mustafa Kemal Ataturk, primo presidente della Repubblica turca, incendiano l'agglomerato urbano cacciando una volta per tutte gli abitanti originari. La guerra si chiude con l'armistizio di Mudanya dell'11 ottobre 1922 e il rientro in patria forzato di quasi due milioni di greci. È a questo punto che esplode a livello internazionale il rebetiko, in incubazione già da vari decenni, come forma di ribellione espressa dai rimpatriati, che non riescono più ad adattarsi alle vecchie abitudini e vengono malvisti da chi non ha mai lasciato la Grecia.
10. Presagi di una tragedia greca
Anche oggi, dunque, la situazione economica e sociale è così precaria da aver rinnovato gli umori che permisero ai greci di quasi cento anni fa di dare vita all'epopea rempetika. "Di fatto la parola 'crisi' è etimologicamente riconducibile al termine 'dividere', concetto che ben si addice al rebetiko, inteso come una musica di separazione, così come alla Grecia stessa, in un certo senso separata dal resto dell'Europa", dice Capossela. I problemi iniziano a farsi tangibili a cavallo fra i 2008 e il 2009: per la prima volta dal 1993 l'economia greca registra un caso di recessione. Alla fine del 2009 la disoccupazione è al 9,6% e il debito pubblico al 113,4%; il primo ministro George Papandreou dichiara il rischio di bancarotta. Il caos prosegue per tutto l'anno successivo, con un incremento dei fallimenti aziendali del 15%. Mentre nel 2011 l'agenzia di rating Moody's taglia ulteriormente il rating della Grecia portandolo alla valutazione Caa1. Tutto ciò si ripercuote pesantemente sulla popolazione che, ricalcando i greci degli anni Venti, proprio nella musica potrebbero trovare sfogo alle proprie pene. Nel marasma economico, purtroppo, sono coinvolti anche i più piccoli. L'Unicef pochi giorni fa ha fatto sapere che in Grecia si sta ripristinando un problema che sembrava tramontato con la fine della Seconda guerra mondiale: la denutrizione fra i minori. Gli esperti dell'Università di Atene comunicano che 439mila bambini vivono al di sotto della soglia di povertà. "In molte scuole di Atene la situazione è drammatica", ha rivelato Maria Iliopoulou, direttrice del brefotrofio della capitale. "Alcuni bambini sono svenuti in classe per la fame". Ma la crisi non risparmia gli adulti. Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista «The Lancet» e intitolato Presagi di una tragedia greca rivela che dal 2007 a oggi, la situazione sanitaria del Paese è peggiorata in modo drammatico. I greci non si curano più, disertano medici e dentisti: li scoraggiano le lunghe liste di attesa o la chiusura dei presidi locali per via della recessione economica. Incrementano i casi di gravi stati patologici legati all'ansia e alla depressione. E aumenta in modo esponenziale il consumo della seconda droga preferita dai rebetis, dopo l'hashish: l'eroina. Gli eroinomani sono cresciuti del 20%, mentre i programmi di recupero per tossicodipendenti o quelli per gli interventi di strada diminuiscono di un terzo. "La Grecia ha la percentuale di tossicodipendenti più alta d'Europa", dice Capossela, all'indomani del suo ultimo viaggio ad Atene avvenuto ad aprile 2012. "Qualcuno ha calcolato che il tremendo buco finanziario dei conti dello Stato potrebbe essere colmato semplicemente da tutti i proventi derivanti dal consumo di eroina, cocaina e cannabis. Anche il rebetiko, del resto, ha avuto uno sviluppo parallelo a quello del consumo di droga: metà del repertorio è, infatti, dedicato al cassish, nome originale dell'hashish consumato nei narghilè". Ci si mette anche l'Aids (che, almeno, al tempo dei rebetis non esisteva) con un incremento di casi del 50%. "Sicché non stupisce sapere che s'è venuto a creare lo stesso senso di smarrimento che contraddistinse la Grecia di parecchi anni fa", riflette Capossela. "Il consumismo ha avuto il sopravvento, indicando nuovi bisogni e necessità. Con il crollo di questo meccanismo, però, non solo ci si è ritrovati più poveri, ma anche privi di identità. Possiamo allora dire che non si è trattato esclusivamente di una crisi economica, ma anche di un tracollo a livello culturale e identitario. In fondo, anche le generazioni che ci hanno preceduto erano povere, ma potevano contare su un senso di appartenenza che a noi è venuto a mancare e che, in qualche modo, offriva un rifugio alle incertezze della vita: in Grecia questa identità era fornita anche dal rebetiko”.
11. Lezioni di Gymnastika
Il disco registrato nel 2007 ad Atene viene oggi pubblicato ufficialmente, dopo post produzione e missaggio effettuato presso Le Officine Meccaniche di Milano nel 2009 dal noto produttore indipendente statunitense, JD Foster (già al fianco di artisti come Calexico e Marc Ribot) e masterizzato, sempre nel capoluogo lombardo, al Nautilus, da Giovanni Versari. Consta di quattordici tracce, fra cui quattro inediti, compreso un pezzo di Vladimir Vysotsky. È uno fra i più grandi poeti e cantautori della seconda metà del Novecento russo. Di lui in Italia s'è occupato il Premio Tenco che ha promosso una raccolta di canzoni a lui dedicata, pubblicata da Ala Bianca, e interpretata da varie figure del cantautorato italiano fra cui Roberto Vecchioni. Il cantante Eugenio Finardi interpreta il musicista nell'album Il cantante al microfono del 2008. Lo stesso Capossela incontra Vysotsky nel 1998, in piena fase Rom, pubblicando Il pugile sentimentale, titolo tradotto di una canzone del poeta russo risalente al 1966. In questo caso, però, il riferimento a Vysotsky non è casuale, poiché Utrennaya Gymnastyka annuncia ufficialmente il tema che dà il titolo al disco, la ginnastica, appunto. “È quanto di più appropriato possa esserci per questo tipo di lavoro”, spiega Capossela, "tenuto conto del fatto che la ginnastica è propria del culto ellenico". Le prime forme di ginnastica nascono, infatti, in Grecia. I soldati si sottoponevano a esercizi ginnici per poter meglio affrontare il nemico; se ne servivano anche per riuscire a salire e scendere da cavallo con maggiore agilità e per migliorare le tecniche acrobatiche circensi. Ma sono anche esercizi fini a se stessi, come quelli elaborati dal 776 a.C. al 396 d.C., in virtù dello sport più rappresentativo dei Giochi Olimpici (comprendenti anche la corsa e il pugilato). I Dori, in particolare, originari della regione danubiana, eccellono in questa disciplina. L'attitudine alla ginnastica è ereditata dai romani e prosegue per secoli come attività sportiva per migliorare le proprie condizioni fisiche. Si arriva dunque a considerare la ginnastica come valore educativo e garanzia di salute con gli studi del pedagogista tedesco Friedrich Ludwig Jahan che, a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, getta le basi per la ginnastica moderna, e inaugura a Berlino la prima palestra pubblica. Vysotsky, però, prende le distanze dalla ginnastica, deridendo il culto del ginnasta forte e potente ostentato dalla cultura sovietica come un bene necessario per il corpo e per la mente. "Vysotsky si burla di questo conformismo, fa del sarcasmo usando l'arma musicale", dice Capossela. "Lui, del resto, era un uomo 'vero', un omone che non si risparmiava per niente e nessuno: scalava le montagne, ma allo stesso modo non si dava limiti con l'alcol e il fumo". È anche lui, quindi, assimilabile a un vero rebetis che compie un altro tipo di ginnastica, forse più spirituale, per arrivare a sviluppare un atteggiamento diverso nei confronti della vita, basato sul senso di appartenenza a un preciso paradigma sociale: “Un paradigma che mette al centro l’uomo”, spiega Capossela, “consentendo di giudicare una persona per quella che è, per quello che dà e riceve, e non per ciò che possiede”. Capossela canta il brano di Vysotsky in russo, supportato da due ottimi traduttori: Kaliopi Veta e Vassilis Massalas. Gli altri inediti sono Abandonato, un pezzo rivisitato dell'argentino Ataualpa Yopanqui, Rebetiko e Misirlou, fra più antichi brani rebetiko, contenuto anche nella colonna del celebre film Pulp Fiction. Mentre la copertina è stata affidata a uno dei più bravi fumettisti in circolazione: il francese David Prudhomme, autore del libro Rebetiko (edito da Coconino Press).
12. La chiusura del cerchio
"Il nuovo disco”, dice Capossela, “è il logico prosieguo di Marinai, profeti e balene. Qui c’erano il mare aperto, la deriva, gli orizzonti sconfinati, le ire di Zeus; in questo, invece, la risacca, il ritorno, il rientro a casa, l'abbandono delle coste natie (quelle di Smirne) per i porti del Pireo". Là c'erano il Billy Bud di Melville, e Lord Jim di Conrad; qui la disillusione di Abandonato, la vedovanza di Morna e le cose semplici de Las Simples Cosas. In pratica si chiude un cerchio ricamato con le musiche dell'assenza, a bordo di una nave inimmaginata che ha girato mezzo Mediterraneo (come Ulisse?), prima di approdare a un porto sicuro, dove abbandonarsi a tanghi, morne e… rebetiko. “Un lamento che si canta in coro, ma si balla da soli. Un coro per farsi coraggio di fronte alla tempesta della vita, di fronte al capriccio del fato, perché succeda quel che succeda, ci resta sempre la consolazione che tutto andrà com'è già stato scritto".
LE CANZONI
1. Abandonato:

La canzone che apre il disco prende spunto da una composizione di Ataualpa Yopanqui, storico cantautore, chitarrista e scrittore argentino, da molti considerato il rappresentante più importante della musica folcloristica facente capo a Buenos Aires. In realtà è la versione di Juanjo Dominguez, con il suo particolare fraseggio chitarristico, a giungere alle orecchie dell’autore italiano; Dominguez è uno fra più importanti suonatori di chitarra classica a livello mondiale, vincitore nel 2005 del Konex Award, onorificenza argentina di grande prestigio. Capossela sceglie, dunque, di interpretare questo brano elaborando un testo personale non lontano, però, dal concetto espresso dalle liriche originali. Anche qui, infatti, emerge il modello esistenziale del ebeti, rifacendosi a uno stile di vita in cui "non bisogna avere paura della propria natura, della provvisorietà umana e dei guai che essa arreca". Il testo è fin troppo esplicito… "C'è in questo pezzo la volontà di evidenziare lo stile anticonformista del rebetis", continua Capossela, "che, in pratica, si lascia passare la vita addosso, la vita fra i denti. È un'ottima canzone per il suono del bouzouki, vero principe dell'intero disco". Ospite di questa registrazione è Marc Ribot, già con Capossela in precedenti lavori e al fianco di star internazionali come Tom Waits, Elvis Costello ed Elton John.

2. Rebetiko

"Ebbro fino agli occhi, vuoto fino al cuore gonfio di regine e di dolore (…); fatevi più stretti attorno, questa sera non mi basta il mondo… nel cerchio del rebetiko da solo, come una parata, come in un addio, questo ballo è solo il mio". Bastano queste lampanti parole tratte dal testo di Rebetiko per comprendere in tutta la sua lucidità e straziante veridicità la filosofia del rebetiko; la figura di un mangas prende vita da questo virgolettato e lo si può benissimo immaginare offuscato dal fumo dell'hashish di un caffé turco, mentre abbandona la sua sedia per iniziare a muoversi quasi catarticamente fino a farsi travolgere completamente dalle note di un bouzouki. "Dimostra quanto sia verosimile la più classica fra le scene vivibili in un tekedes", dice Capossela, "nel momento in cui all'intonazione di un canto, può seguire il mormorio di un coro, ma il ballerino che si alza per danzare, lo fa in assoluta solitudine e per una volta sola in una sera". È una canzone che invita chiunque conservi un po’ di "assenza" dentro sé, a impiegare la pista e iniziare a muoversi seguendo i passi di una danza improvvisata, parafrasando il più celebre botta e risposta di Zorba il Greco (film del 1964 girato da Michael Cacoyannis), ormai appannaggio dell'immaginario collettivo, anche di chi non sa nulla di grecità: "Teach me to dance…"; "dance? Did you say dance?!". È qui che a livello popolare s'inizia a parlare di sirtaki, senza, però, sapere che il ballo greco più famoso del mondo è figlio di una danza ellenica chiamata hasapiko, la danza dei macellai, "assorbita" dal rebetiko negli anni d'oro della diaspora. L'incisione di Capossela, greca fino al midollo, mostra l'impazzare del bouzouki di Papos, che ammanta l'intero brano con la sua cadenza melliflua e orientaleggiante, che sussurra di epoche lontane e cocenti addii: “Baciami una volta e lasciami morire… è tempo di morire per te sola”.

3. Misirlou

"È il pezzo più randagio del disco, frutto del genio di un rebetis che non ha mai depositato il brano", dice Capossela. "Deriva da Smirne, storica culla dei padri del rebetiko, e parla di una ragazza egiziana (di religione islamica) di cui, presumibilmente, l'autore s'è innamorato". Nel brano, infatti, ricorrono sovente lemmi arabeggianti che invocano il sentimento più eccelso. "Oh mio amore, oh mia notte, ah, dalle tue labbra cade miele, ah…". È divenuto famoso per essere stato incluso nella colonna del celebre film, Pulp Fiction, ma in pochi conoscono la sua vera "identità". Oggi la canzone è annoverata nel vastissimo repertorio della musica greca tradizionale, ma sono in tanti ad averla riproposta nella storia musicale del Novecento. Il primo è Michalis Patronis nel 1928, in piena epoca rebetiko; l'hanno poi ripresa il jazzista Nick Roubanis e il chitarrista Dick Dale, che ne fa una versione surf-rock nel 1960; mentre con il sopravvento del rock è suonata dai Beach Boys e dai Black Eyed Peas. Nel disco di Vinicio Capossela è invece interpretata da Kaiti Ntali, "con quella sua voce particolarissima, quasi assimilabile a un timbro maschile". La canta in greco, conferendo grande fascino a un brano che non ha bisogno di particolari sforzi per stare in piedi. Anche qui fa, dunque, capolino la "gymnastika", che è quella sostenuta dallo stesso Capossela soffiando nel microfono a intervalli regolari per rinforzare la "voluttuosità" del brano, creando una sorta di percussione aerofona.

4. Utrennyaya Gymnastika

La canzone è cantata in russo da Vinicio Capossela, grazie al contributo di una traduttrice greco-russa, che ha consentito all'autore di intonare altresì la strofa finale in greco. Il titolo di Vladimir Vysotsky, Utrennyaya gymnastika, rimanda alla tradizione sovietica, incentrata sulla cultura del fisico possente, scolpito e prestante: non è un caso che alle Olimpiadi i russi e i paesi limitrofi abbiano sempre primeggiato sugli altri. Ma Vysotsky coglie il pretesto per satireggiare su questo aspetto sociale, prendendo in pratica per i fondelli i connazionali, e ridendo di questa contemplazione esasperata del corpo. "In questo frangente l'esercizio ginnico è stato doppio", rivela Capossela. "Da una parte, infatti, ho dovuto imparare a cantare in due lingue molto diverse dall'italiano, il russo e il greco, dall'altra l'intera canzone è stata sottoposta a un restyling compositivo, passando dal classico tempo binario a un 9/8, assai più difficile da sostenere". Il 9/8 - come il 12/8 e il 6/8 - è un tempo composto e si divide in tre battiti o movimenti i cui accenti sono: forte, piano, piano. Ogni movimento o battito vale 3/8. È tipico di alcune danze greche, ma anche di varie gighe irlandesi.

5. Contrada chiavicone

"È proponendo questo pezzo dal vivo che abbiamo cominciato a parlare di rebetica rokkarolla", dice in tono scherzoso Vinicio Capossela. "Incosciamente, dunque, il mondo del rebetiko cominciava a farsi strada nei nostri neuroni, imponendo alla nostra attenzione le musiche dell'assenza, e i meravigliosi mondi da esse celati. In particolare, con rebetika rokkarolla solevamo intendere pezzi particolarmente 'nervosi', come Contrada chiavicone", canzone risalente al 1996, e inclusa nel disco Il ballo di San Vito; per la prima volta al fianco del musicista italiano c’è Marc Ribot: “Di fatto è dopo il suo solo, un vero esercizio ginnico, che iniziamo ad accarezzare il termine”, precisa Capossela. Il brano si presta benissimo alla rivisitazione in chiave ellenica, offrendo un autentico "duello" di bouzouki, entrambi suonati con grande maestria da Manolis Papos. "È un disco praticamente registrato in diretta", afferma l'autore, "ma per questo brano s'è fatta un'eccezione, dando modo a Papos di fare ‘ginnastica’ su due tracce differenti. Viva anche l’idea di creare un sound analogo a quello udibile dai finestrini abbassati di un taxi ateniese, in pieno traffico, nel cuore di un'infernale estate greca”. In questa canzone i musicisti coinvolti nel progetto hanno messo a disposizione le loro ugole, affrontando una serie di coretti che hanno infine caratterizzato l’esecuzione. Un'ultima curiosità: chiavica è la traslitterazione greca di yπόνομος, così come chiavicone deriva da o του υπονόμου. Entrambi i termini si riferiscono alla malavita del Pireo, in zone particolarmente calde come il quartiere Truba. "Vieni da Truba? Allora non puoi che essere un malavitoso", un tipico botta e risposta, presente nell'immaginario collettivo facente capo ad Atene.

6. Con una rosa

La canzone, originariamente inclusa nel disco Canzoni a manovella, uscito nel 2000, e coverizzata da Giusy Ferreri nel 2009 nel suo album fotografie, trova in questo lavoro linfa nuova per affascinare e piacere. Tutto per via dell'utilizzo di un groove assai particolare, il bajon: è un ritmo sincopato, vagamente assimilabile alla samba (altra musica annoverabile fra quelle dell'assenza), che supponendo un tempo in 4/4, corrisponde a 22/25 battute musicali. Alcuni confondono il bajon con il fox, benché le due forme musicali non abbiano niente in comune. "Abbiamo realizzato questo brano con un ritmo battezzato 'ellenico bajon", rivela Capossela, "conferendo alla canzone un andamento più serrato rispetto alla versione originale, più orientaleggiante". Il risultato è figlio anche dell'impiego azzeccato del violino elettrico suonato da Mauro Pagani, ex PFM e storico collaboratore di figure come Fabrizio De André e Gabriele Salvatores. "Un approccio musicale che rimanda ai mondi pentagrammati di Oum Kalthoum", asserisce Capossela, una fra le più leggendarie cantanti egiziane, nata nel villaggio di Tamay al-Zahayra nel 1904 e morta al Cairo nel 1975. La grecità del pezzo è offerta anche dal titolo che invoca le rose, fiori notoriamente ascrivibili all’iconografia rebetika. "Ora si può dire che la canzone ha perso molto della sua elegante aria originale", dice Capossela, "e si può assimilare a un pezzo da night club egiziano".

7. Contratto per Karelias

Può, di fatto, essere considerata la prima canzone rebetika composta da Vinicio Capossela, presente nel disco Canzoni a manovella (del 2000): non a caso è realizzata subito dopo il rientro da Salonicco, nel 1998, con il primo tu per tu con gli epigoni Markos Vamvakaris e Manolis Chiotis. "Il testo, in particolare, è debitore esplicito del microcosmo esistenziale evocato dai rebetis", dice Capossela. "Nella canzone, infatti, ho cercato di mettere quel senso di disillusione vissuto da ogni autentico mangas, una sorta di accettazione dell'esistenza, senza, però, pietismi o ricorsi alla religione". Il testo è quanto mai eloquente: "Ora è la brace che consuma anche per me; ho un contratto per Karelias, fuma, fuma l'illusione e fumo anch'io…". E il finale, che rimanda a Fragkosiriani, celebre brano di Vamvakaris, è epico. Anche il tempo dà modo a Capossela e ai suoi musicisti di fare un po’ di 'sana' ginnastica. È infatti il tipico tempo osservato da una delle più importanti danze greche, l'hasapiko (che significa 'macellaio'), le cui radici affondano alla corporazione dei macellai arvaniti, un popolo greco di origine albanese: da questa danza Mikis Theodorakis ha tratto ispirazione nel 1964 per comporre la musica del film Zorba il greco, da quel momento chiamata sirtaki (vedi Rebetiko).

8. Non è l’amore che va via

Il rumore che si sente all'inizio di questo brano, è quello con cui Papos si accende l'ennesima sigaretta. Per questo motivo l'autore ha pensato a lungo di poter aprire il disco con questa canzone. "Papos è un fumatore accanito", dice Capossela. "Quando gli ho chiesto che ginnastica facesse, lui mi ha risposto serafico: 'tossisco'". È dunque anche questo - quello di accendersi una sigaretta con lo Zippo - un esercizio; ancora una volta, seppur allegoricamente, la ginnastica torna a dire la sua, esprimendosi in virtù di un'azione che con la salute ha ben poco a che vedere, ma che in un certo senso riguarda ancora la 'nudità' esistenziale (ginnastica deriva dal greco 'gymnos' che significa 'nudo') del genere umano. In ogni caso il rebetis è anche questo: "Un uomo che sceglie di affondare con le sue stesse armi, senza chiedere a niente e a nessuno", rivela Capossela. La canzone incisa per la prima volta nell'album del cantautore italiano Camera a Sud, cambia volto passando da un tempo ternario a un tempo binario, e spostando la tonalità dal Do- al Sol-. "L'ho cantato molto più bassa", afferma Capossela, "per cercare di evocare con maggiore efficacia l’atmosfera di un porto, la risacca, la taverna". L'approdo ideale di Marinai, profeti e balene.

9. Corre il soldato

In questo brano, Papos esprime il suo talento con il bouzouki elettrico. Sviluppa un'introduzione particolare che in gergo viene chiamata taksim. Si può considerare un'ouverture, in cui uno strumento si stacca dagli altri per introdurre singolarmente un tema musicale. In realtà ne esistono di tre tipi, a seconda del punto in cui viene collocato: perciò si può palare di bas taksim, ara taksim e ulama taksim. In questo caso il riferimento è al bas taksim, quello di apertura. Viene utilizzato spesso in Grecia, ma anche in Turchia e in molti paesi arabi. "È un brano che mi sembrava idoneo a questo lavoro, anche per ciò che riguarda le liriche", confida Capossela. "Parla, infatti, della guerra in Kosovo, una terra con espliciti rimandi alla cultura ellenica". Rispetto alla versione originale comparsa su Canzoni a manovella del 2000, il brano guarda più a est come pathos e intenzioni, trovando forse, in questo contesto, la sua migliore espressione.

10. Signora Luna

Questa canzone è il mio canto notturno di un pastore errante per l’Asia”, dice Capossela, riferendosi al capolavoro leopardiano. Il testo deriva da un’antica canzone dell’Ecuador, ascoltata per la prima volta dal cantautore italiano al mitico Florida, di Modena; e si riferisce a un dialogo con la Luna, come se fosse una figura umana. Alla Luna, dunque, chiede se i luccichii che percepisce nel cielo corrispondano agli occhi della madre scomparsa. "Signora Luna che mi accompagni per tutto il mondo, puoi spiegarmi dov'è la strada che porta a lei?". Dal punto di vista degli arrangiamenti, “mi piace definire questa canzone un esercizio di ellenico western", dice Capossela, "contemplando una sorta di trasposizione ideale dalla frontiera macedone a quella dell'antico West americano". All'autore piace, dunque, l'idea di dare vita a un brano dal quale possa scaturire l'atmosfera che potrebbe contraddistinguere le fasi di poco precedenti un duello fra pistoleri; a cominciare dal paesaggio macedone, così brullo e spettrale da poter facilmente essere messo a confronto con certi angoli statunitensi. E paradossalmente i pistoleri potrebbero essere proprio i musicisti coinvolti nel progetto, con la loro profonda grecità e con i loro duelli a suon di virtuosismi. L'immaginario potrebbe essere espresso molto bene da un qualunque film di Milco Mancevski, regista macedone di grande talento, premiato nel 2007 come Ambasciatore della cultura della Repubblica di Macedonia e nel 1994 con il Leone d'oro veneziano; è portavoce di quello che qualcuno ha definito il western europeo, tipico di film come Dust.

11. Morna

Posizionare Morna - storico pezzo del disco del 1996, Il ballo di San Vito - all'undicesima traccia non è un caso. Si vuole, infatti, sottolineare l'epilogo di un viaggio, di una deriva, di un vagabondaggio per i mari del Mediterraneo; Morna è la risacca, è il porto da cui si parte e a cui si arriva, è il degno finale di un pellegrinaggio iniziato con Marinai, Profeti e Balene e proseguito con la prima parte di questo disco. Giungendo, dunque, al termine è ora di rientrare, di rincasare, di fare i conti con il destino. Il testo prende spunto da una composizione del poeta e giornalista greco (nato ad Alessandria d'Egitto) Kontantinos Kafavis, in particolare nel verso "quando è sprecata la vita una volta, è sprecata in ogni dove". La morna è un'altra musica dell'assenza, derivante dall'incrocio fra la musica africana e il fado portoghese; una delle più vive a tenaci, proprio come il rebetiko. Nasce presso le Isole di Capo Verde e può contare su figure di spicco come Cesaria Evora, venuta a mancare poco tempo fa. Fra gli altri rappresentanti di questo mondo musicale, c'è anche una moltitudine di poeti e pensatori che, esattamente come i rebetis, non sono mai saliti su un palco per cantare e mostrare al mondo il proprio talento; hanno sempre cantato di sbieco, vivendo, però, come i mangas del Pireo la vita di petto, anche in questo caso dimentichi della possibilità di depositare brani e liriche che poi sarebbero diventate leggendarie. Morna in questo disco assume un potere ancor maggiore di quello che aveva all'inizio, trasformandosi in un'onda che finalmente (o sfortunatamente) approda alla costa. C'è un ospite di tutto riguardo: Ricardo Pereira, uno dei più quotati esponenti della nuova generazione di suonatori di chitarra portoguesa.

12. Las Simples Cosas

È un importante inedito, un bolero, "un ottimo esercizio per il bouzouki", specifica Capossela, perché si rifà implicitamente al microcosmo del rebetiko: "Oggi si tende a usare spesso discorsi contorti e complessi per dare un significato alle cose", spiega il cantautore, "benché le 'piccole' e importanti cose della vita possano essere espresse con un solo aggettivo, con una sola parola. È a questo tipo di comunicazione che si affida il rebetis, il mangas: per dire a qualcuno ti amo, o ti odio, ci mette un istante senza dover fare mille giri di parole". In questo brano non c'è solo il rebetiko, ma anche echi che rimandano alla morna capoverdiana, al fado portoghese e al tango argentino (tutte musiche dell'assenza). E non potrebbe essere altrimenti visto che il pezzo è stato reso celebre soprattutto da Chavela Vargas, leggendaria figura dell'universo musicale messicano e dell'intera America Latina: divenne popolare negli anni Sessanta anche in Europa, specie in Spagna, frequentando esponenti dell'intellighenzia artistica del tempo fra cui Frida Kahlo e Diego Rivera. La versione di Capossela è più melodica, più moderna, ma altrettanto incisiva e coinvolgente, e contraddistinta dal verso più poetico e straziante nello stesso tempo: "Perché semplice è l'amore e le semplici cose se le divora il tempo". Anche questo brano, come Morna, è posto verso la fine del disco, in virtù del suo ritmo lento e cadenzato, immaginabile al termine di un viaggio, nei pressi di un porto.

13. Scivola vai via

Il brano perfetto per chiudere questo lavoro, questo viaggio”, dice Capossela. "Esprime lo strazio dell’onda della risacca, il tentativo di trattenere le cose e quindi di scivolare via… Questo struggimento viene perfettamente espresso dal tempo in 9/8 del zeibekiko". È un esercizio "ginnico" in piano stile, considerato che, rispetto alla versione originale contenuta in All’una e trentacinque circa, si va a contemplare, appunto, il tempo principe del rebetiko: "Un tempo tutt'altro che facile da seguire", assicura l'autore italiano, "dove è come venire aggrediti dai demoni, gli stessi che circondano l'aura del rebetis che abbandona la sua postazione a sedere per ballare, in totale solitudine". La cosiddetta 'danza delle danze' nasce probabilmente con i zeibekidi, una bellicosa tribù dei turcomanni, nota in medio oriente intorno al 1830. L’ultima strofa è cantata in greco, grazie al contributo della traduttrice Vassilis Massalas. Si torna altresì a parlare di "altrove", inteso come quel senso di nostalgia che ci porta a non essere mai soddisfatti completamente della vita, ma che offre anche la consapevolezza che se si vuole andare avanti con dignità occorre la giusta dose di coraggio e fatalismo.

14. Come Prima (ghost track)

"Un capriccio di Kaiti Ndali". Così Capossela definisce la ghost track di Rebetiko Gymnastika. Di fatto la cantante greca, letteralmente innamorata di questo brano, chiede al cantautore italiano di poterla interpretare e includere nel disco in fase di preparazione. Capossela è, dunque, lieto di assecondare la richiesta della cantante ellenica e questo è il piacevole risultato, con uno sfizio nel finale: la sostituzione del celebrato "ti amerò" con l'altrettanto blasonato "sagapò", "ti amo", in greco. Il brano è uno fra i più leggendari della musica leggera italiana; conosce la fama nel 1958, in seguito all'operato di Antonio Lardera, un 22enne di Campobasso che si fa chiamare Tony Dallara. È una piccola rivoluzione, considerato che a quei tempi si è in piena fase-bel canto alla Frank Sinatra o alla Nilla Pizzi. E invece in questo caso, Dallara scardina i crismi dell'epopea melodica del dopoguerra, per cantare a pieni polmoni un pezzo che nel ritornello addirittura singhiozza, imitando l'approccio al canto dei Platters. Ma il suo segreto è anche il conferimento di un movimento a una canzone che in fondo è assimilabile a un lento, per dare vita al cosiddetto "slow". Si rifà allo stile terzinato, che anche in questa versione di Ndali emerge in tutta la sua "vitalità".