martedì 1 settembre 2009

"Ho smesso di essere miope e ho iniziato a farmi guardare negli occhi"

Enrico Ruggeri, da due settimane su Italia Uno con il nuovo spettacolo “Quello che le donne non dicono”. Come sono andate le prime due puntate? Più facile chiacchierare con Loredana Berté o Maurizia Paradiso?
Le prime due puntate sono andate bene. Probabilmente è stato un po’ più difficile chiacchierare con Loredana, più propensa ad andare per la sua strada che seguire le indicazioni dell’intervistatore.
Nel 1994, dopo aver inciso “Oggetti smarriti”, intraprendi un tour teatrale con un’orchestra di sole donne. Oggi dedichi la tua nuova trasmissione televisiva a esponenti di spicco del gentil sesso. Cosa si cela dietro la scelta di confrontarsi così da vicino con l’universo femminile?
Un forte e legittimo interesse per le donne. Per quanto riguarda la tv volevo, in più, scardinare il luogo comune secondo il quale le donne si raccontano solo alle donne. Sono infatti convinto che davanti a un uomo che le mette a loro agio, possono arrivare ad aprirsi meglio che in qualunque altra situazione.
Il cromosoma Y dell’uomo è molto più piccolo dell’X femminile e pieno di Dna spazzatura. C’è chi inizia seriamente a pensare che la donna sia davvero superiore all’uomo, benché quest’ultimo abbia i tricipiti più sviluppati...
Non è altro che un luogo comune. È come dire che tutti i gay sono sensibili. Ci saranno dei gay più sensibili, ma anche altri meno sensibili. Allo stesso modo è prevedibile supporre che ci siano donne più intelligenti di alcuni uomini ed altre più stupide. Quel che si può invece dire con certezza è che l’uomo e la donna sono molto diversi fra loro da un punto di vista anatomico e ancor più psicologico. L’uomo è più aggressivo, più forte, la donna è più vulnerabile.
A chi è venuta l’idea del cubo in vetro all’ombra del Duomo di Milano e perché?
Credo sia venuta al direttore Tiraboschi. Io avevo espresso il desiderio di creare una struttura che simboleggiasse la vita e in ogni caso mi piaceva l’idea di condurre la trasmissione in un luogo diverso dal classico studio televisivo.
Quali saranno i prossimi ospiti?
Alessandra Mussolini, Rita Rusic, Susanna Tamaro, Patti Pravo, Anna Tatangelo e Federica Pellegrini.
Enrico Ruggeri comincia la sua carriera di presentatore nel 2005 con “Il bivio”. Dove nasce il desiderio di governare il piccolo schermo?
Dal fatto che l’ho criticato moltissimo. E siccome non mi piace parlare male di cose che non so fare... il passo è stato breve. Anche per questo che non faccio il giornalista: spesso il critico parla male di cose che non sa fare sostenendo tesi sconclusionate. In pratica non volevo trovarmi nella situazione di sentirmi dire ‘prova a farla tu una buona televisione’.
Paolo Bonolis, “Il senso della vita”, Fabio Fazio, “Che tempo fa”, Daria Bignardi, “Le invasioni barbariche”. Tre modi di interrogare mondi e persone. In chi ti riconosci di più?
Forse in un quarto che non hai menzionato: Enrico Mentana. Secondo me è il più bravo di tutti per la sua capacità di gestire le situazioni più difficili e più diverse fra loro. Casi anche molto drammatici dove un avverbio fuori luogo può davvero costarti la reputazione. Dei tre che mi hai proposto probabilmente quello che stimo di più è Paolo Bonolis.
5 giugno 1957, la tua data di nascita. Cosa ricordi della Milano della tua infanzia? Dove abitavi e che ambienti frequentavi?
Ho abitato fino a dieci anni in via Morelli, vicino a viale Maino, poi sono andato a vivere dalle parti di Porta Romana. Era una Milano molto diversa da quella di oggi dove potevi giocare a pallone in mezzo alla strada, più facile da vivere. Era una città che aveva finalmente risolto il problema dell’immigrazione, accettando di buon occhio i tanti meridionali che durante il periodo post-bellico non avevano avuto vita facile. C’era poi la nebbia e la grande Inter di Herrera. Vincemmo la Coppa Campioni nel 1963... ricordo ancora quel che mangiai la sera del trionfo.
Gli occhiali che fine hanno fatto?
Semplicemente, un giorno, ho deciso di farmi operare, e così non ho più dovuto ricorrere agli occhiali. Ho smesso di essere miope e ho iniziato a farmi guardare negli occhi.
Correva l’anno 1972 e frequentavi il liceo “Berchet”. Come te la cavavi con le declinazioni del latino? Ricordi i tuoi dischi preferiti di quel periodo?
All’epoca mi piaceva il progressive. Quindi dischi di gruppi come Emerson, Lake e Palmer, Jethro Tull, Gentle Giant... in pratica la musica bianca anglosassone. Poi sono arrivati i Roxy Music e Lou Reed. Del liceo, in compenso, non ricordo molto... fino alla terza declinazione. In ogni caso c’era il sei politico che ti salvava.
A proposito di sei politico... I primi anni Settanta sono anni caldi. A scuola i professori propongono soprattutto Marx e Gramsci, pochissimo Nietzsche e Schopenhauer, D’Annunzio e Leopardi. Poi un giorno due tuoi compagni prendono in mano il microfono ed esultano: il commissario Calabresi è stato freddato davanti alla sua abitazione da esponenti di Lotta Continua...
È stato giustiziato dal proletariato.
Come hai vissuto questo periodo?
Erano anni ingiusti, violentissimi... Non esisteva il dialogo. I professori, un po’per paura, un po’ per militanza politica, erano faziosissimi. Ci davano da studiare Gramsci di continuo, benché non fosse particolarmente esaltante. D’altra parte molti periodi storici venivano completamente omessi dal programma scolastico. Mi riferisco per esempio al Risorgimento giudicato troppo ‘marziale’. In filosofia si passava da Hegel a Marx trascurando tutti gli altri giganti del pensiero come Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard. Insomma, abbiamo avuto una educazione incompleta e superomologata.
Il 4 ottobre 1977 ti esibisci con i Decibel – praticamente il tuo primo vero gruppo – presso la discoteca Piccola Brodway che sorgeva in via Redi, angolo corso Buenos Aires. È il periodo dei Sex Pistols e Lou Reed. All’appuntamento si presentano rappresentanti del movimento punk (allora considerato di destra) e di Avanguardia Operaia. Risultato: botte da orbi e il giorno dopo finite su tutti i giornali. È da lì che è iniziata la tua carriera?
Direi di sì, anche se, in realtà, il concerto non ci fu. Il nostro pretesto infatti fu semplicemente quello di pubblicizzare un evento (con cartelloni sparsi strategicamente per la città) per sollevare un calderone e attirare l’attenzione, cosa di cui oggi, sinceramente, mi vergogno un po’. In ogni caso le cose andarono proprio come avevamo sperato. Ci furono degli scontri e qualche ragazzo finì all’ospedale. Noi invece finimmo su tutti i giornali e di lì a poco (fine novembre) al Castello di Carimate per registrare il nostro primo disco.
Riflettendo sulla tua carriera viene da pensare che ti piacciano soprattutto le cose “fatte in casa”. La maggior parte dei tuoi collaboratori, infatti, sono persone alle quali sei legato da anni. Ci sono per esempio Silvio Crippa, tuo produttore dal 1977, Luigi Schivaone, tuo chitarrista dai primi anni Ottanta...
È vero. Mi piace poter lavorare con dei veri amici e poter instaurare con loro rapporti professionali duraturi. Sono convinto della necessità di essere contornato da persone che non hanno problemi a dirti le cose in faccia, anche se sono esternazioni che possono dare fastidio. Servono, invece, a migliorasi e a crescere. Diffido, invece, dell’idea di confrontarmi con personaggi bluff in grado di assolvere ogni mio desiderio, di ridere a ogni mia battuta, incrementando in verità il senso di solitudine e di nevrosi che spesso condiziona la vita di un artista.
Nel 1980 la tua prima apparizione al Festival di Sanremo con “Contessa”. Nel 1987 il primo posto con “Si può dare di più” (in compagnia di Umberto Tozzi e Gianni Morandi), e il premio della critica per “Quello che le donne non dicono”, interpretata da Fiorella Mannoia. Nel 1993, altra vittoria – questa volta in solitaria - con “Mistero”. Quante volte hai messo piede all’Ariston per il Festival dei fiori?
Se non sbaglio ci sono andato sei volte. La prima è stata memorabile. Eravamo diversissimi da tutto ciò che veniva proposto in quegli anni. Inevitabilmente abbiamo guadagnato visibilità. A Sanremo nel 1987, invece, è stato molto gratificante. Vinsi come interprete con una canzone sostanzialmente nazionalpopolare a fianco di Morandi e Tozzi, e poi come autore (insieme a Schiavone) grazie alla canzone cantata da Fiorella Mannoia che ricevette il premio della critica. Fu per me una doppia conferma: delle mie doti canore e di autore di testi.
Cristina Barbieri, nome d’arte Diana Est, corista di Ivan Cattaneo, nipote di Mario Lavezzi, fa il botto nel 1982 con una tua canzone “Le Louvre”... Sai che fine ha fatto?
L’ho sentita qualche giorno fa su Radio Popolare... ma credo che non canti più.
Nel 1989 la prima raccolta di racconti, “La giostra”; nel 1995 la raccolta di poesie “Per pudore”; nel 2000 la seconda raccolta di racconti, “Piccoli mostri”. A quando il primo romanzo di Ruggeri?
Quando riuscirò a scriverne uno bello. Per ora ne ho un paio piuttosto brutti che giacciono nel cassetto. In realtà non mi è facile confrontarmi con la stesura di un romanzo. Si deve stare per troppo tempo con la stessa idea in testa, cosa che – stancandomi in fretta - non mi riesce bene. Preferisco assecondare cinquanta idee in un anno...
Nel 1996 festeggi i tre milioni di dischi venduti, una cifra oggi – per via di internet – verosimilmente irraggiungibile. Come immagini il futuro della discografia?
Non ci sarà più la discografia. E di conseguenza non ci saranno più le grandi star musicali, ma tanti piccoli artisti in qualche modo celebri nel proprio contesto sociale, nel proprio quartiere, su un determinato canale televisivo o sito internet. Siamo destinati a un mondo in cui metà delle persone sarà un pochino famosa: ‘tutti avranno il loro quarto d’ora di celebrità’, diceva Andy Warhol. La cosa triste, però, è che il Fabrizio De Andrè del 2012 non avrà mai modo di emergere e di guadagnare ciò che si merita.
Nei primi anni Ottanta – dopo varie incomprensioni con la “Spaghetti Records”, la vecchia casa discografica - dicesti che non saresti più rimasto un anno intero senza fare niente e hai infatti mantenuto la promessa: ad oggi sono 26 i dischi che hai pubblicato, una media da fare invidia a Bob Dylan (che ne ha pubblicati più di 40, ma lui è nato nel 1941). Si può sapere quante canzoni hai composto in tutto e quante sono quelle che ancora riposano in un cassetto?
In genere compongo una quarantina di pezzi per disco. Quelli che rimangono nel cassetto, però, non vedranno mai la luce perché non sono venuti abbastanza bene.
Magari con un bootleg...
Sono contrario a questo tipo di prodotti. Prendiamo l’esempio Jimi Hendrix. Escono sempre suoi nuovi bootleg... ma sono progressivamente e inevitabilmente sempre più brutti.
Componi alla chitarra o al pianoforte?
Al Pianoforte e alla chitarra.
Nel 2003 per festeggiare i 25 anni di carriera esce il disco “Gli occhi del musicista”, uno fra i lavori di Ruggeri preferiti dalla redazione di Milanoweb per la sua voglia di raccontare storie in bilico fra passato e presente, e la volontà di cimentarsi con strumentazioni folk. Come nascono “Primavera a Sarajevo” e “Il matrimonio di Maria”?
Nascono come tutte le altre canzoni. Tenendo comunque conto del fatto che, di solito, le canzoni folk hanno una musica allegra e un testo triste e un arrangiamento particolare.
Prendi spunto dalla vita reale per lo sviluppo dei testi?
Qualcosa di reale c’è sempre poi, però, sviluppo la canzone seguendo la mia fantasia. Per esempio vedo uno screzio fra un uomo e una donna, e in seguito do vita a una canzone su due persone che si lasciano per sempre.
Che ne dici del nuovo assessore alla cultura di Milano, Massimiliano Finazzer Flory? Lo conoscevi prima del licenziamento di Vittorio Sgarbi?
È una vicenda che non ho seguito.
Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini. I tre cantautori degli anni Settanta per antonomasia. Chi di loro ti ha dato di più?
Sono tre grandi artisti. Non saprei dire chi mi ha dato di più. De Andrè è interessante dal punto di vista strumentale, Guccini per le liriche, De Gregori per la sua capacità di rinnovarsi.

Intervista condotta presso gli Studi Merak, zona Mecenate (21 novembre 08)

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